Sull'Isonzo un microcosmo di esuli
.... di Claudio Magris

Un nome che significa "fuggiasco" per un piccolo, misterioso popolo che nei secoli ha messo radici presso Monfalcone. E una lingua parlata da circa sessantamila persone, che produce vigorosa poesia, libera da ogni colore locale. 

Il nome - bisiaco, in dialetto bisiác - significa fuggiasco, esule, anche se la sua etimologia, scienza per altro spesso tentata dalle contraffazioni, è stata mistificata. Ai tempi del Fascio, preoccupato di negare la presenza e le tracce di altre genti e nazionalità in quelle terre al confine orientale d'Italia, l'etimologia ufficiale, ancor oggi accreditata nell'opinione comune, faceva derivare il nome dal latino bis aquae ossia dalla zona, nei pressi di Monfalcone, compresa fra il Timavo e il basso Isonzo. Come il corso dei fiumi - pure l'Isonzo, nei secoli, ha modificato il suo - ogni identità è labile, l'orlo di una spiaggia che avanza o si ritira, una cicatrice su un viso.
Nemmeno "bislacco", che sarebbe un etimo onorifico invidiabile, regge allo scalpello dei glottologi. Come scrivono Silvio Domini e Aldo Miniussi, l'origine della parola risale a un antico verbo nordico, baegia, attraverso lo sloveno bežati, fuggire; spingendosi fra il settimo e l'ottavo secolo lungo la frontiera, gli sloveni chiamavano Beziaki le popolazioni italiche che si ritiravano, sicché bezjak veniva a significare pure esule. Il bisiaco - che gli slavi nel Medioevo denominavano vlahicum, neolatino - è soprattutto una lingua; quel dialetto sorto, secondo Giuseppe Francescato, quando il latino aquiliese si è dissolto, diversificandosi nel friulano - in area longobarda - e nel Veneto (di cui il bisiaco è una variante) lungo la fascia costiera dell'Adriatico. Oggi a parlarlo sono circa 60.000. Qualche anno fa, un disegno di legge mai approvato, che prevedeva anche nella Bisiacaria l'insegnamento del friulano nelle scuole, aveva sollevato le proteste dei bisiachi, timorosi di veder assorbita e cancellata la loro plurisecolare individualità in quella friulana, ben più grande e robusta.
Un'etnia che si afferma lo fa, spesso, a spese di un'altra più debole, negando così il principio in nome del quale protesta contro lo Stato o la nazione più forte da cui si sente conculcata; la Storia è tutto uno schiumoso ribollire, in cui le bollicine bramose di emergere si distruggono a vicenda, scoppiando una dopo l'altra.
In quanto sinonimo di fuggiasco e di profugo, bisiaco indicava, nei secoli passati, uno che parla male e dunque uno che fa fatica a capire, uno stolto; chi non parla la nostra lingua è sempre, per ognuno di noi, un barbaro, come lo era per i greci. Sempre un po' nomade, un viaggiatore si sente facilmente uno straniero che non comprende bene la lingua, ma neanche i gesti, i sentimenti, gli dèi della gente, così come non distingue i diversi canti degli uccelli - sull'isola di Cona, alle foci dell'Isonzo, se ne possono vedere 100 specie differenti in un solo giorno - o i rumori del vento e i mutamenti che si annunciano.
Le tappe del viaggio, da un paese all'altro della Bisiacaria, sono piuttosto brevi, una volta 8 chilometri, un'altra 2,5. Ma anche lo spazio, come il tempo, si contrae e si dilata, a seconda di ciò che lo riempie; si accartoccia o si gonfia come un palloncino, ingrandendo le distanze e le cose, alterando le loro proporzioni. Un perdigiorno incuriosito e attento che girovaga in uno spazio ristretto assomiglia a un fotografo che ingrandisca le immagini, facendo affiorare dall'indistinto sempre nuovi particolari, scoprendo universi incasellati uno nell'altro. Una palude, nell'isola della Cona, è una chiazza indifferenziata, ma a poco a poco lo sguardo individua e pone in primo piano innumerevoli realtà, il muso immobile di una rana a pelo d'acqua, i ghirigori di una biscia che scivola, non si capisce se nuotando o strisciando, sulla superficie melmosa. Fra gli oggetti si aprono lontananze e un canneto fissato a lungo con gli occhi abbagliati dal grande sole estivo subisce un processo analogo a quelle parole che, ripetute e ripetute più volte, finiscono per perdere il loro senso e diventare altre, risonanze di altri significati.
Un viaggio senza un percorso prestabilito e senza mete obbligate - perché, dopotutto, in Bisiacaria non c'è quasi niente da vedere - è una scuola di percezione, spiega paziente Paolo Bozzi, maestro di questa scienza che insegna non come è fatto il mondo, ma come i nostri sensi lo afferrano. Percepire richiede tempo, lentezza, la libertà dell'ozio che permette di soffermarsi su un effetto di rifrazione della luce o su un carnoso fiore di oleandro; richiede di non essere assillati dalla fretta né da un risultato da raggiungere, ma di poter scialacquare il tempo, lasciarlo andare o buttarlo via come una fetta d'anguria appena assaggiata, che si getta con noncuranza, perché dell'anguria, bella rossa e grande, ce n'è ancora tanta, e basterà per macchiare la camicia con il sugo che schizza fra i denti.
La Bisiacaria è uno di quegli spazi paralleli, contigui alla nostra realtà quotidiana, cui si passa accanto molto spesso ma in cui non si entra quasi mai, come in certe vie della propria città o in certi paesi ai margini dell'autostrada. Avevo sfiorato, attraversato, costeggiato tante volte queste terre basse di fiumi e di mare, ma senza mai veramente vederle, toccarle; Turriaco, San Pier d'Isonzo, Staranzano erano meri nomi. Il vagabondaggio fra questi campi e questi paesi non cerca ricordi, nostalgie, tenere e precarie reliquie dell'Io, ma il mondo aldilà della siepe. Non si cerca, in fondo, niente; ci si lascia andare, come un pezzo di legno in una roggia.
La prima tappa è Pieris. Nella chiesa di Sant'Andrea c'è una rozza ma schietta Via Crucis, le teste troppo grandi e le dita dei piedi hanno l'evidenza sgraziata e perentoria della carne. Nella calura, entriamo in un cortile, dove sotto folti ippocastani si gioca a carte. È la sede dell'Arci, che ospitalmente rifocilla anche i forestieri non iscritti. Mentre entriamo, Margherita Bozzi sente qualcuno, a un tavolo, mormorare che "questi non sono nostri compagni". Per un attimo si resta un po' male, la sensazione di una discriminazione immeritata, ma poi fa piacere risentire quella parola e soprattutto vedere che c'è ancora un sano istinto di classe, capace di distinguere chi è compagno sul serio. Sotto quegli ippocastani, i sessantottini e gli extraparlamentari radicaleggianti avrebbero poca fortuna, verrebbero smascherati anche prima della loro predestinata conversione a destra.
In Bisiacaria si vedono solide Case del Popolo, vie intitolate a Gramsci e a Tina Modotti, manifesti di raduni partigiani. I contadini e gli operai di Ronchi, e in particolare quelli dei Cantieri di Monfalcone, subirono una dura repressione fascista e le opposero un'accanita resistenza, che - grazie soprattutto all'organizzazione comunista - non fu mai stroncata del tutto, come un esercito che anche in una battaglia perduta non si sfalda. Operai di Monfalcone erano anche, in gran parte, quei duemila militanti comunisti che nel '47 - reduci dalla lotta partigiana, alcuni dalla guerra di Spagna, dalle carceri fasciste e dai Lager - si recarono volontariamente in Jugoslavia per contribuire alla costruzione del socialismo e, nel '48, quando Tito ruppe con Stalin, furono deportati e sottoposti ad abiette violenze in due Gulag titoisti in due isole adriatiche, dove resistettero eroicamente in nome di Stalin, che per essi significava l'ideale rivoluzionario e che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in un Gulag, nel quale uomini liberi e fieri come loro sarebbero stati le prime vittime.
Anche se Monfalcone, con la sua storia e le sue industrie, è il centro più importante, la capitale della Bisiacaria è forse Ronchi. In una sua vecchia locanda fu arrestato, nel settembre 1882, Guglielmo Oberdan, rimasto il simbolo non solo di patriottismo, ma anche di una troppo sublime moralità incline al sacrificio proprio e altrui. Ernestina Pellegrini ha parlato di un "complesso di Oberdan" degli scrittori triestini, presente - non senza suo disappunto - anche in quelli che lei ama di più perché sanno pure abbandonarsi felicemente all'acqua, al fluire della vita.
Al numero 59-61 di via D'Annunzio, una targa ricorda che in quella casa il vate, "arso di febbre e di volontà eroica", la notte del 12 settembre 1919 aveva atteso "l'alba radiosa" della marcia dei suoi legionari su Fiume. A Ronchi si ricordano forse più volentieri altri personaggi, da Francesco Giuseppe che nel 1912 elevò il paesino a borgata, firmando in italiano il diploma imperiale, al maestro Rodolfo Kubik, metà cèco metà bisiaco, che nel 1926 si rifiutò di far suonare Giovinezza alla banda cittadina da lui diretta e che, esule antifascista in Argentina, celebrò con una Cantata il generale San Martin, il Libertador. Ronchi non ha elevato a D'Annunzio alcun monumento, che è stato invece innalzato, forse per dispetto, dai monfalconesi a pochissimi metri dal cartello che indica il confine tra Ronchi e Monfalcone. Quis contra nos, sta scritto sul monumento. Pochi anni dopo, alcuni dei legionari fiumani dovevano affrontarsi, anche armi in pugno, da opposte barricate, nello scontro tra fascisti e antifascisti; vent'anni dopo alcuni sarebbero divenuti eroi della Resistenza, come Ercole Miani che i nazisti torturarono senza riuscire a cavargli una parola di bocca e Foschiatti, morto in un Lager. A Fiume, D'Annunzio fece fallire il ristorante Lloyd che apparteneva alla famiglia di Marisa, mia moglie, e dove i legionari - come lei ha raccontato in Verde acqua - venivano invitati a mangiare gratis. Una foto lo mostra, sorridente e irrimediabilmente simpatico, in mezzo a tutto quel nostro parentado entusiasta.
A Ronchi, incontro Silvio Domini. Studioso di storia e di linguistica, autore di numerose pubblicazioni di vario genere - e, insieme ad altri, di un poderoso Vocabolario fraseologico del dialetto "bisiàc" - Domini sa tutto della Bisiacaria, ma è molto di più di un erudito, perché le sue pagine, innamorate della sua terra ma scevre di ogni chiusura particolaristica e rigorose, sono pervase da una visione ampia delle cose e inseriscono l'amore per il luogo natio nel sentimento dell'appartenenza alla più vasta comunità nazionale e nel fraterno dialogo con le altre culture che fanno parte di quel mondo di confine, come quella slovena. Egli è soprattutto uno schietto e vigoroso poeta in bisiaco; i suoi versi, liberi da ogni colore locale, dicono passione, malinconia, lo scivolare nell'ombra, l'ardere del sommacco sul Carso, i turbamenti del cuore che fanno presto a diventare segatura, la morte che, sotto l'ala bianca degli uccelli che volano in alto, sembra più leggera alla barca "smarida, scridilìda" che l'attende. Non è certo una sfortuna essere poeta in bisiaco, che ha sei termini diversi per indicare i diversi gorgheggi d'amore del fringuello e per il quale il sonno è di genere femminile, come si addice alla sua materna armonia rigeneratrice. Una lirica di Domini dà voce a una delle passioni più intense (anche irrazionali, devastanti) della vita e più trascurate dalla letteratura, l'amore per i figli - la paura, come egli scrive, di non saper dar loro il modo di andare sicuri nel torbido che li aspetta.
Paesi vicinissimi, ma ognuno inconfondibile, quasi unico nella pianura. A Turriaco un barista, cui Alberto Cavallari chiede notizie di un valente e defunto liutaio, il signor Clemente, mi rimprovera una troppo scarsa severità, in un mio articolo sul Corriere, nei confronti di alcuni bagnanti indifferenti a un morto adagiato vicino a loro in riva al mare. In questo piccolo paese, nel '45, Silvio Benco, in quel terribile momento di disfatta e di violenza degli occupatori jugoslavi contro gli italiani, ha scritto un dolente pamphlet, Contemplazione del disordine, in cui tutto il secolo e la sua cultura sembrano sfociare nella decadenza e nel caos. Quel nobile e ingiusto saggio è la sofferenza di un uomo che vede perire il proprio mondo e lo scambia per il tramonto di tutto il mondo; la sofferenza è una cattiva maestra, intorbida lo sguardo. Ma è facile e ingiusto criticare la sua parzialità; per renderle giustizia, occorre saper immedesimarsi con essa, perdere insieme ad essa la visione globale della realtà, che ridimensiona ma fa anche dimenticare il dolore, vivere a fondo quell'esperienza radicale della vita, quel momento in cui esiste solo la sofferenza.
A San Canzian d'Isonzo una passante ci dissuade energicamente dal visitare la chiesa di San Proto, in cui c'è un sarcofago di San Grisogono martire cui la tradizione attribuisce varie sepolture, anche in mare, e mio presumibile antenato, appartenente a quella mia famiglia materna di cui Giorgio Pressburger ha tracciato un epico ritratto attraverso la storia del suo palazzo a Spalato. A San Pier d'Isonzo, dopo aver obbedito a un'anziana signora che ci ferma, per la strada, per farsi fotografare insieme a noi, si va in cerca di Giuseppe Ermacora, che scrive poesie col nome di Pino Scarel. Bisogna scampanellare a lungo, perché è sordo, finché ci apre, dopo aver indossato una camicia e delle ginocchiere di lana. È anziano, ha lavorato tutta la vita nei cantieri e come muratore; ha pubblicato qualche smilzo volumetto, altre sue poesie sono affisse sulla porta della chiesa o sulla parete di un circolo. È contento, ma non inorgoglito né intimidito dall'interesse dei forestieri, mostra le sue poesie con assoluta naturalezza, come mostra il rosmarino davanti alla casa o come un falegname mostra il mobile che ha appena finito. Nelle sue liriche ci sono immagini forti e sommesse, venute fuori come oggetti plasmati da buone mani. Fogo al veciun, dice un suo verso; l'erba appassita che viene bruciata è anche la vecchiaia. Ma lui racconta come sua nonna, ultranovantenne, si lamentava sì dei suoi acciacchi, ma aggiungeva che è meglio restare quaggiù, "perché si vede sempre qualcosa"; prendeva, giustamente, la vita come un cinematografo. La morte, scrive Paola Casolo Marangon, nella sua intensa Storia di Rosa, ambientata nella Bassa isontina, esiste solo per chi ci crede.
Tempo de soto, si diceva una volta quando fra questi campi arrivava l'odore del mare e dell'estate, la stagione di Eros. Benito Nonino non ha mai dimenticato come, da bambino, sentisse parlare di una donna bisiaca che era "amante", senza che si dicesse di chi - non è poco poter dire di qualcuno che è semplicemente amante, che quello è il suo epiteto principale. Il mare è vicino, si mescola all'acqua dolce del fiume e delle paludi. Il lido di Staranzano è cosparso di fango secco, l'acqua è bassissima, grossi pesci nuotano fra le gambe, un granchio preso in mano agita le chele, rimesso sul fondo sparisce nella sabbia. Molti casoni, costruiti come un tempo e bellissimi, sono abusivi e oggetto di un'aspra vertenza fra chi difende il paesaggio della tradizione e chi difende la legge. Qui passava nell'antichità la via dell'ambra. Il fango si spezza sotto i piedi, alghe e gusci vuoti marciscono al sole, il pomeriggio è inoltrato. Eusebio invecchia con dignità, dice una scritta latina trovata poco distante nell'urna di una nobile famiglia romana.
I confini linguistici sono impercettibili, richiedono un orecchio speciale. Carlo Luigi Bozzi, ad esempio, distingueva la lenta scansione degli abitanti di Sagrado da quella scabra e veloce di Fogliano, il suo paese natale. Storico, educatore e poeta, egli sopravvive in due vie, una scuola ed un cippo che recano il suo nome, in numerosi libri eruditi e nella sua poesia, indissolubilmente fusa col dialetto bisiaco riscattato da ogni folclore vernacolo e divenuto espressione del mondo. Nei suoi versi c'è Fogliano, con le sue chiese, il monte, i "compagnoni beverendi", le esistenze oscure trascorse tra la chiesa e l'osteria. Fogliano è lo stesso comune di Redipuglia, comprende pure il grande sacrario dei caduti; il sacro è quel sentimento dell'uguaglianza di tutti davanti alla morte, ognuno - anche chi ha un nome - è un milite ignoto.
Poco più oltre, Sagrado, la cui appartenenza alla Bisiacaria è discussa. Piccola, ma con un tono di città, palazzi d'età e decoro rispettabili, colori accesi di fiori; luogo di battaglie, di transito sul fiume. Su quel ponte sull'Isonzo è passato, ai primi di giugno del 1882, il carro funebre di Angelo Musmezzi, il ricchissimo "pirata" che aveva avventurosamente corso i mari ai tempi delle guerre greco-turche, accompagnato non da canti ecclesiastici, ma dalla canzone - le cronache dicono "canzonaccia" - dei giocatori di bocce. Nella piazza, ricorda Paolo Bozzi, c'era, all'epoca della sua infanzia, una fontana a ruota ed i bambini erano concordi nell'interpretare il suo sussurro: il cigolio che faceva la ruota salendo verso l'alto diceva "Amore miio" e lo stantuffo, scendendo nell'acqua, aggiungeva "Sei tu". "Amore miio - sei tu, amore miio - sei tu".
Si scende al greto dell'Isonzo. Tronchi divelti e marciti giacciono tra i sassi, l'acqua riluce, l'oro del cielo, colore del tempo, si fa lentamente bruno, come una grande foglia autunnale. Vagare di qua e di là, sguazzare nell'acqua, stendersi sulle pietre e pensare, come nelle fantasie infantili, ad una piena che arrivi improvvisa e travolgente. Il greto è vuoto, ma in quel vuoto si avvertono riflessi, echi, rumori, sfrascare, fluire, stridio d'uccelli. Ora m'è un po' più difficile percepire e distinguere tutto questo, accorgermi di sfumature, di mutamenti, del trascolorare, abituato com'ero ad osservare la realtà non solo coi miei occhi, ma anche e soprattutto con quelli di Marisa, tanto più attenti e sagaci, più amorosamente capaci di afferrare le cose. Un matrimonio, un'esistenza condivisa, può essere, in buona parte, anche questo, andare insieme per il mondo a guardare quel tutto o niente che c'è da vedere. Il sole tocca quasi la pianura, scarlatto ed enorme. L'occhio umano lo vede tanto più grande quando esso è all'orizzonte che non quand'è allo zenit o comunque alto. Pare che per i lemuri, secondo gli esperimenti del grande psicologo viennese von Allesch, amico di Musil, avvenga il contrario. Comunque adesso è proprio grande, infuocato. Al 'ros / de na zornada finida, dice un verso di Domini, il rosso di una giornata finita.


(L'articolo di Claudio Magris apparso sul Corriere della Sera del 21 settembre 1997 è pubblicato col permesso dell'autore.)